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Kosovo - 21 maggio 2014Torna all'indice →

Le cucine popolari del Kosovo raccontate in un libro

Una storia di solidarietà raccontata attraverso le pagine di un libro, “Molto mi piace” (Duuscia Edizioni, 2013), scritto da Silvia Battistini e pubblicato grazie al sostegno dell'Associazione Amici di Decani, che da tempo porta avanti numerose attività di sostegno alle minoranze e alla popolazione in stato di necessità. Un viaggio culinario nella regione balcanica, come lei stessa ha ricordato nel corso di un incontro organizzato a Roma dalla Ong umanitaria Intersos dal titolo “Kosovo tra speranza ed enclavi” è un progetto, nato con la voglia di rendere noto il lavoro iniziato quasi 15 anni fa nelle cucine popolari fondate da Svetlana Stevic. Una donna, una “popadija” (moglie di un prete in serbo) che ogni giorno da oltre un decennio riesce a preparare e distribuire il cibo quotidianamente necessario alla sussistenza di oltre 2.170 persone indigenti di ogni etnia e confessione che vivono in diverse regioni del Kosovo. “Gastronomia serba in terra di Kosovo”, riporta il sottotitolo del volume - il cui ricavato viene devoluto alle attività benefiche stesse – tra le quali sono annoverate circa una quarantina di ricette “che si perdono nella complessa storia della loro terra”. Molte pietanze, infatti, sono in comune con le varie etnie che vivono nel Paese autoproclamatosi indipendente nel 2008 e risalgono alla tradizione alimentare sotto la dominazione ottomana. Sarma, pita, burek o baklava: nomi che a seconda del luogo cambiano anche solo nel modo di essere pronunciati, ma che designano piatti simili. “Le differenze risiedono nelle limitazioni alimentari previste dalle diverse religioni”, ricorda Battistini, storica dell'arte dei musei civici di Bologna, che carpisce i segreti delle cuoche serbe passando molto tempo con loro nelle Cucine popolari. “Gastronomia serba”, o l'altro volto del Kosovo, quello di una minoranza presente che vive e va tutelata come qualsiasi altra. Una minoranza - afferma l'autrice – “per lo più costretta a vivere in comunità chiuse, enclavi, dove la coscienza della propria identità si rafforza anche perpetuando ricette e sapori tradizionali”. A circa 15 anni dalla fine del conflitto sono in tanti a non sentirsi sicuri. “Il Kosovo ha ancora bisogno del sostegno e della presenza della forza internazionale. Ci sono zone in cui la convivenza è ancora molto difficile, anzi impossibile. E zone in cui invece è diventato facile muoversi”. “Per questo resta la paura”, ribadisce all'ANSA padre Ilarion Lupulovic, igumeno del monastero di Draganac. ''Ancora pochi giorni fa - prosegue padre Ilarion - il monastero di Decani ha subito altre minacce”, mentre a fine aprile sul cancello del monastero di Visoki Decani erano comparsi graffiti con la sigla dell'Uck (l'esercito di liberazione del Kosovo). Per questo motivo, sono ancora in molti a ritenere indispensabile che gli italiani della Kfor (le forze di pace delle Nazioni Unite) non possano andar via da Decani. La vede così anche Andrea Angeli, decano funzionari Onu nei Balcani, che esprime forti perplessità e preoccupazioni all'idea che i militari lascino definitivamente la custodia di quei luoghi dichiarati dall'Unesco Patrimonio mondiale. “Anche se dovesse rimanere un solo soldato in Kosovo, quel milite non potrà che stare a presidio del monastero di Decani”, sostiene. “Volenti o nolenti, dopo 15 anni di presenza ininterrotta la protezione di quei luoghi è divenuta una sacra responsabilità nazionale”.